12/18/2025 | Press release | Distributed by Public on 12/18/2025 08:05
La settimana scorsa il Commissario europeo per l'industria, Stéphane Séjourné, ha presentato un aggiornamento alla Strategia di sicurezza economica approvata nel 2023. Il documento esorta l'UE e i Paesi europei a passare da un approccio reattivo a uno proattivo, costruendo una strategia efficace per il rilancio dell'economia europea in un periodo in cui le relazioni economiche internazionali sono utilizzate anche come armi e strumenti di pressione.
A parte ciò, tuttavia, i cambiamenti proposti sono soprattutto cosmetici. Complice, quasi certamente, la ritrosia di diversi Paesi europei "piccoli" e liberali, che temono passi troppo rapidi verso una strategia industriale europea. Il motivo è che un'industria europea in grado di competere con i "grandi" del mondo suggerisce la creazione di campioni continentali che difficilmente potrebbero essere basati nei Paesi economicamente meno grandi; e che per stimolarne la creazione i sussidi necessari potrebbero essere molti.
Così la strategia si concentra su alcune aree prioritarie. Una tra tutte: il tentativo di ridurre la dipendenza da un singolo fornitore per molte materie prime critiche. L'obiettivo dichiarato è ambizioso: ridurre significativamente, in soli 5 anni, il grado di dipendenza europeo. Per esempio dal 95% al 42% per le terre rare, dal 71% al 17% per il gallio, dal 45% allo 0% per il germanio. Ammesso che si riesca a farlo, tuttavia, è probabile che ciò significhi diversificare ulteriormente i fornitori esteri. Senza investimenti mirati in questo senso, la strategia potrebbe rimanere un sogno.
I problemi di sicurezza economica e competitività dell'UE non si limitano certo all'eccessiva dipendenza da un unico forniture per materie prime critiche. Quest'anno anche l'export dell'Unione è stato messo sotto stress, soprattutto a causa dei dazi di Trump.
Gli annunci, i ripensamenti e le smentite dell'inquilino della Casa Bianca hanno dato vita alla dinamica che è possibile osservare nel grafico qui sopra. Analizzando la variazione anno su anno dei primi 9 mesi del 2025, l'export europeo verso gli USA è cresciuto del 10%. Questa crescita però si è concentrata tutta nei primi 3 mesi dell'anno quando, in un momento di forte incertezza ma anche di dazi doganali ancora fermi al 10%, si è iniziato a fare frontloading in vista di un annuncio di vera e propria "guerra commerciale" di Trump (arrivato poi il 2 aprile con il "Liberation day"). Al contrario, osservando la dinamica dei 6 mesi successivi l'export UE verso gli Stati Uniti si è contratto dell'1,6% rispetto allo stesso periodo del 2024.
Una delle cause di questa inversione di tendenza è proprio il frontloading. L'anticipo di acquisti che stagionalmente sarebbero avvenuti nella seconda metà dell'anno, a parità di produzione, ha depresso gli ordini successivi. Un secondo fattore è l'incertezza, che gioca sempre un ruolo cruciale nella gestione temporale di magazzini e investimenti.
Ovviamente attribuire l'intero calo ai dazi potrebbe essere eccessivo. Per apprezzare gli effetti strutturali dei nuovi dazi statunitensi bisognerà aspettare ancora un po', quando il commercio globale si sarà assestato su un nuovo equilibrio.
L'Europa non è solo alle prese con i dazi di Trump, ma con sfide strutturali di più lungo periodo e di cui abbiamo parlato anche nei numeri precedenti. Spicca, tra queste, la sovracapacità cinese, che ormai coinvolge non più solo beni a basso valore aggiunto o relativi a materie prime o materiali lavorati, ma anche la meccanica strumentale e, in maniera eclatante, l'automotive.
L'avvento di veicoli passeggeri cinesi, sia elettrici ma anche a motore convenzionale, ultracompetitivi in termini di prezzo e capaci di attrarre anche i consumatori europei è passato dall'essere un'ipotesi remota cinque anni fa a una realtà non più in discussione. Nel frattempo l'industria europea è rimasta indietro anche sui motori elettrici, tanto che a oggi l'85% di questi sono prodotti in Cina, e solo il 7% in Europa (non tanto distanti dal 5% del Nordamerica).
Per questo motivo CLEPA, l'associazione europea della componentistica, stima che su un settore che oggi impiega circa 1,7 milioni di persone in Europa le perdite occupazionali, che oggi già superano le 100.000 persone, entro il 2030 potrebbero arrivare a 300.000-350.000 e crescere ancora a 500.000-650.000 nel 2035. Insomma, una contrazione del 30-40% nell'arco del prossimo decennio.
Spesso l'UE si pone obiettivi molto ambiziosi, con il rischio che sbiadiscano nel tempo. Qualcosa di simile stava accadendo con la Strategia per una Mobilità Smart e Sostenibile, che prevedeva di raddoppiare il traffico ferroviario ad alta velocità entro il 2030 e triplicarlo entro il 2050, rispetto ai livelli del 2015. Il problema è che nel 2023 questo valore era cresciuto solo del 17%, mentre la dimensione della rete per l'alta velocità del 20%, con differenze marcate tra i paesi dell'Europa continentale/mediterranea e quelli dell'est.
Per questo a novembre la Commissione, per riaffermare la centralità del trasporto ferroviario all'interno della strategia di competitività dell'UE, ha annunciato un nuovo piano per rimettere in carreggiata il progetto dell'alta velocità. Con quest'ultimo piano l'UE ha identificato 4 priorità: accelerare gli investimenti e armonizzare l'infrastruttura ad alta velocità, sviluppare un quadro competitivo e accessibile per vettori e passeggeri, stimolare l'innovazione tecnologica e migliorare il coordinamento per sfruttare appieno la capacità della nuova rete.
La volontà però da sola non basta: rimangono da superare gli ostacoli dei colli di bottiglia transfrontalieri tra Paesi membri, e soprattutto dei finanziamenti. Se da un lato la Commissione stima intorno ai 345 miliardi i costi per completare TEN-T, studi esterni valutano che perseguire i nuovi obiettivi costerà oltre 550 miliardi. Anche se i benefici economici attesi, stimati intorno ai 750 miliardi, supererebbero i costi, mobilitare così tante risorse sarà un'impresa complicata.
Oltre a condizionare prezzi e tempistiche del trasporto merci marittimo, gli shock degli ultimi anni (Covid, guerra in Ucraina, attacchi degli Houthi nel Mar Rosso) hanno anche causato un'inversione di tendenza nell'età della flotta globale.
La necessità di coprire nuove tratte, spesso più lunghe delle precedenti (con la relativa penuria di navi in porti nevralgici) ha creato innanzitutto una divergenza tra la crescita della capacità della flotta disponibile (+22%) e quella del tonnellaggio programmato sulle diverse rotte (+11%).
La stessa crescita della flotta è poi frutto non solo di costruzione di nuove navi, ma anche (e soprattutto) della tendenza degli operatori a posticipare la rottamazione delle vecchie navi per far fronte a necessità inattese. Anche tra gli stessi operatori però coesistono realtà diverse tra loro: Evergreen e HMM hanno alcune tra le flotte più giovani (età media 9 anni), mentre il naviglio a disposizione di Maersk e MSC è in esercizio da una media di 16 anni.
A giocare un ruolo chiave nello sviluppo di questa tendenza sarà l'evoluzione dei traffici attraverso lo stretto di Hormuz e Suez, adesso che gli Houthi hanno segnalato l'intenzione di ridurre o addirittura cessare gli attacchi. Un ripristino della rotta di Suez permetterebbe agli operatori di rottamare navi ormai vecchie e inefficienti (soprattutto in termini di consumi ed emissioni), anche per raggiungere gli obiettivi 2030 di sostenibilità fissati dall'International Maritime Organization.