04/04/2025 | Press release | Distributed by Public on 04/05/2025 02:35
Nella tarda serata di mercoledì, 2 aprile, le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno condotto raid aerei in diverse località della Siria, oltre a effettuare un'incursione terrestre nel governatorato meridionale di Daraa. Dalla caduta di Bashar Al-Assad, l'8 dicembre scorso, Israele ha colpito ripetutamente obiettivi in territorio siriano, compresa la capitale, con l'intento di indebolire il nuovo governo di Damasco guidato da Ahmed Al-Sharaa, già leader di Al-Qaeda in Siria noto con il nome di battaglia Abu Muhammad Al-Jolani. Le autorità israeliane hanno fatto capire sin da subito di non fidarsi dei nuovi arrivati, saliti al potere dopo un'offensiva lampo durata solo undici giorni, ma la posta in gioco riguarda anche lo scontro, sempre meno latente, tra Israele e il principale sponsor regionale di Damasco: la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Ankara vanta l'esercito più potente del Medio Oriente e punta a fare della Siria la propria piattaforma militare avanzata. Vicina, forse troppo, ai territori israeliani.
L'aviazione israeliana, nel giro di 30 minuti, ha preso di mira obiettivi nel governatorato centrale di Hama, dove l'aeroporto militare è stato quasi completamente distrutto. Colpita anche la base di Tiyas, meglio conosciuta come T4, situata a est di Homs. Gli attacchi, ripresi brevemente anche nel pomeriggio del 3 aprile, sono stati confermati anche dall'IDF, che nella stessa notte ha pesantemente colpito anche la Striscia di Gaza. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha affermato che gli attacchi contro gli aeroporti e le infrastrutture siriane rappresentano "un avvertimento per il futuro". E ha aggiunto: "Se si permette alle forze ostili a Israele di entrare in Siria e di mettere a repentaglio gli interessi di sicurezza di Israele, si pagherà un prezzo alto". Destinatario del messaggio, ovviamente, il presidente Al-Sharaa e il suo governo di transizione 'tecno-islamista' recentemente nominato. Probabilmente, però, il messaggio è rivolto anche alla Turchia, che sostiene il nuovo sistema di potere siriano e che, stando alle indiscrezioni di stampa uscite poche ore prima dei raid (ndr), dovrebbe prendere il controllo proprio della base T4, installandovi sistemi di difesa con l'obiettivo di scoraggiare Israele dal violare lo spazio aereo siriano (come fa regolarmente, almeno dal 2017).
Dalla caduta di Assad, Israele ha ripetutamente colpito depositi di armi, mezzi e infrastrutture militari siriane. La contabilità degli attacchi è molto complessa, ma secondo Charles Lister del Middle East Institute, Israele ha lanciato 48 raid aerei e 84 incursioni di terra in Siria dall'8 dicembre ad oggi. Il tutto è avvenuto senza reazioni da parte di Damasco e senza che le autorità siriane colpissero o minacciassero di colpire Israele, neanche una singola volta. Diversi osservatori concordano sul fatto che Tel Aviv voglia approfittare dell'attuale stato di debolezza della Siria, che di fatto si ritrova senza un vero esercito né sistemi di difesa aerea, per mantenere il paese in uno stato di 'caos controllato', fomentando le divisioni interne tramite l'avvicinamento delle comunità druse e curde e riportando in auge la sua consolidata 'strategia periferica'.
Come già detto, però, c'è l'importante variabile turca da considerare nell'equazione. Vale la pena ricordare che Israele e Turchia hanno instaurato relazioni diplomatiche già nel 1949. La Repubblica turca è stata il primo Stato musulmano a riconoscere Israele e nonostante la retorica ostile di Ankara, spesso amplificata da Erdoğan per motivi di politica interna e consenso tra gli islamisti, i due paesi hanno mantenuto una cooperazione pragmatica: scambi commerciali, accordi militari negli anni '90, contatti d'intelligence e dialogo su energia e sicurezza. Le tensioni, come la crisi della Mavi Marmara nel 2010, hanno talvolta incrinato i rapporti, ma non li hanno mai spezzati, anche alla luce di una comune necessità: contenere l'influenza iraniana nella regione, che nella Siria di Assad aveva la sua chiave di volta, almeno fino a qualche tempo fa. Oggi, infatti, le cose sono cambiate. Con la debacle del regime Baathista, l'Iran ha perso terreno in Siria, facendo venir meno l'avversario comune che legava Israele e Turchia. Inoltre, dal punto di vista israeliano, la nuova Siria di Al-Sharaa è di fatto un feudo turco, con cui lo Stato ebraico si ritrova per la prima volta a gestire un confine condiviso alle pendici delle Alture del Golan.
Se Erdoğan negli anni ha usato spesso la retorica antisraeliana come parte del populismo in salsa islamista tipico dell'AKP, nell'ultimo periodo abbiamo assistito a un innalzamento dei toni. Il 30 marzo, il presidente turco ha auspicato che Dio "porti alla distruzione dell'entità sionista", mentre il Jesusalem Post - quotidiano israeliano di centrodestra - scrive chiaramente che l'espansione militare della Turchia in Siria è una nuova minaccia alla sicurezza di Israele. "Un drone turco che penetra nello spazio aereo israeliano non è più immaginazione: entro il 2025, è diventato una minaccia realistica", scrive il giornale. Una fonte della difesa israeliana, sentita dalla stessa testata, ha dichiarato senza giri di parole che i recenti attacchi aerei in Siria servono a "trasmettere un messaggio alla Turchia". E cioè: "Non stabilite una base militare in Siria e non interferite con le attività israeliane nei cieli del Paese". Il ministero degli Esteri turco, condannando gli attacchi in Siria, ha sottolineato che "Israele è diventato la più grande minaccia alla sicurezza regionale" ed è un "destabilizzatore strategico, che provoca caos e alimenta il terrorismo".
La situazione, potenzialmente esplosiva, chiama in causa anche altri attori regionali e internazionali. In particolare, due: l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti. La leadership di Damasco vorrebbe coinvolgere maggiormente regno arabo nelle sorti della Siria: da una parte per contribuire finanziariamente alla ricostruzione, con la sua grande disponibilità economica, dall'altra per bilanciare il peso enorme (e ingombrante) della Turchia. Non a caso, il primo viaggio all'estero di Al-Sharaa è stato proprio in Arabia Saudita, una scelta 'giustificata' solo in parte con il pellegrinaggio ai luoghi santi dell'Islam. Mercoledì 2 aprile il quotidiano israeliano i24 News ha dato la notizia, non confermata da altre fonti, di un possibile incontro faccia a faccia, il primo, tra Al-Sharaa e il presidente americano Donald Trump in Arabia Saudita a metà maggio, mediato dal principe ereditario Mohammed Bin Salman. Il giorno prima, 1° aprile, il giornalista Ariel Oseran - fima di i24 News - ha riferito in un post su X che il nuovo governo siriano sta cercando di stabilire canali di comunicazione ufficiosi con Israele, sempre con il supporto dell'Arabia Saudita. Anche in questo caso, ovviamente, la notizia non è stata confermata. Cosa pensare? Potrebbe benissimo trattarsi di fumo mediatico, magari con l'obiettivo di bruciare questi canali di dialogo prima ancora che vengano creati sul serio, lasciando la Siria in un limbo di incertezza e al centro dello scontro, sempre meno improbabile, tra i suoi ingombranti vicini israeliani e turchi.