07/22/2025 | News release | Distributed by Public on 07/22/2025 04:03
C'è un reticolo inosservato che si estende sui fondali del Mar Tirreno meridionale, una rete invisibile che non trattiene soltanto pesci ma condiziona interi ecosistemi. È fatto di plastica, bottiglie, corde in polipropilene e taniche vuote: sono gli Anchored Fish Aggregating Devices (aFADs), strumenti di pesca artigianale pensati per attrarre i pesci, ma che oggi rappresentano una delle fonti più pervasive e meno studiate di inquinamento marino nel Mediterraneo.
Questi dispositivi, spesso abbandonati o persi, sono ancorati ai fondali con chilometri di cime sintetiche che si trasformano in rifiuti sommersi, difficili da localizzare, difficilissimi da rimuovere. Nel solo Tirreno meridionale, tra il 2017 e il 2022, sono stati censiti 1739 FAD ancora ancorati durante le campagne di monitoraggio condotte da Sea Shepherd Italia: un dato che, considerando il tasso di perdita stimato in letteratura, porta a una stima di oltre 5500 dispositivi nella sola area di studio.
Per far emergere questo fenomeno sommerso, è stata decisiva la sinergia tra ricerca scientifica e citizen science. Grazie alle missioni condotte da Sea Shepherd1 tra le Isole Eolie e le coste calabresi, è stato possibile raccogliere dati sistematici e strutturati, utilizzati da Fondazione CIMA nell'ambito del National Biodiversity Future Centre (NBFC) per analisi statistiche, modelli di distribuzione e valutazione dell'impatto ambientale.
«Con il supporto dei dati raccolti in mare da Sea Shepherd, siamo riusciti ad avere una mappatura precisa della distribuzione e della composizione dei FAD ancorati», spiega Alberto Sechi, ricercatore dell'Ambito Ecosistemi Marini di Fondazione CIMA. «Solo le linee di plastica usate per ancorarli superano i 2500 chilometri: una lunghezza paragonabile alla distanza tra Parigi e Mosca».
I risultati preliminari di questo lavoro erano stati già presentati nel 2023 all'European Cetacean Society Conference sotto forma di poster scientifico, intitolato The ghost labyrinth. Da allora, l'analisi è proseguita ed è stata recentemente pubblicata in una short note peer-reviewed, che amplia lo spettro di osservazione sia in termini spaziali che ecologici.
La densità grezza rilevata nello studio è pari a 0.067 FAD/km², ma corretta per le perdite si attesta su 0.215 FAD/km², in un'area marina di oltre 25.000 km² - una superficie 3,5 volte più estesa rispetto a quanto riportato in studi precedenti. La profondità media degli ancoraggi è di circa 1366 metri, con punte oltre i 3500 m. I FAD, spesso posizionati in fila lungo assi latitudinali, formano vere e proprie "autostrade di plastica" che attraversano aree ecologicamente sensibili, come il corridoio dei cetacei tra lo Stretto di Messina e le Isole Eolie.
L'impatto non è solo paesaggistico: sono stati documentati rischi gravi per la megafauna marina, tra cui tartarughe e cetacei. In particolare, i ricercatori hanno recentemente documentato il primo caso accertato di morte di cetaceo per entanglement2 in un FAD nel Mediterraneo. Inoltre, i materiali sintetici che compongono questi dispositivi - bottiglie, taniche, polistirolo, corde di nylon - contribuiscono all'ingestione accidentale di plastica da parte di specie come il capodoglio (Physeter macrocephalus), già classificato come Endangered nella Lista Rossa IUCN3.
Anche gli habitat profondi non sono immuni: i pesi da zavorra e le cime d'ancoraggio causano alterazioni nei fondali, danneggiando coralli, spugne e organismi bentonici4, aggravando la fragilità di ecosistemi già messi a dura prova da cambiamenti climatici e pressioni antropiche.
«Questi dispositivi sono progettati per attrarre pesci, ma attirano anche problemi», commenta ancora Sechi. «Se lasciati sul fondale, si trasformano in vere e proprie trappole ecologiche, con conseguenze che vanno ben oltre la pesca».
Dal punto di vista normativo, l'uso dei FAD ancorati è regolamentato solo parzialmente. Mentre una circolare del MiPAAF (n. 10385 del 2020) raccomanda l'uso di materiali biodegradabili, tale indicazione non ha valore giuridico vincolante e risulta in contrasto con il quadro normativo europeo, che si limita a promuovere buone pratiche senza obblighi stringenti. Di fatto, solo il 4% dei dispositivi analizzati presentava componenti biodegradabili: tutti gli altri erano costituiti interamente o parzialmente da plastica.
A livello internazionale, accordi come MARPOL5 vietano l'abbandono intenzionale di rifiuti plastici, ma non contemplano le ricadute indirette dell'uso di FAD. Anche le raccomandazioni della General Fisheries Commission for the Mediterranean (GFCM), che prevedono la transizione al biodegradabile entro il 2027, non hanno ancora valore vincolante.
Tuttavia, ad oggi, non esistono ancora in commercio aFAD completamente biodegradabili (soprattutto per quanto riguarda zavorre e cime). Di conseguenza, la strategia più efficace e immediatamente attuabile per ridurre l'impatto ambientale resta la sostanziale riduzione del numero di FAD dispiegati in mare.
L'importanza di questo lavoro non è passata inosservata. La BBC ha recentemente raccontato questa indagine in un lungo reportage, "The illegal web of fish traps in Italy's Mediterranean", in cui viene evidenziato il ruolo cruciale della collaborazione tra Sea Shepherd, il NBFC e Fondazione CIMA per far luce sull'estensione e l'impatto di questi strumenti sommersi. «Utilizzando l'analisi statistica», si legge, «Sea Shepherd produce mappe dal 2017 per identificare per la prima volta l'estensione di questo labirinto fantasma creato dai FAD ancorati al fondale marino».
L'analisi scientifica è chiara: la riduzione significativa del numero totale di FAD è oggi la misura più efficace per contenere l'impatto ambientale. Le alternative biodegradabili, per quanto auspicate, non sono ancora disponibili in forma completamente efficiente, soprattutto per le componenti di zavorra. Servono incentivi, norme vincolanti, programmi di recupero e, soprattutto, una nuova cultura della pesca sostenibile.
Il labirinto invisibile che avvolge il fondo del Mediterraneo può essere disgregato. Ma per farlo servono dati, azioni condivise e uno sguardo lungo sul futuro del mare.