11/13/2025 | Press release | Distributed by Public on 11/13/2025 03:53
Il 22 settembre scorso, i leader delle giunte militari di Burkina Faso, Mali e Niger hanno fatto notizia annunciando congiuntamente il ritiro dei loro Paesi dallo Statuto di Roma - il trattato istitutivo della Corte penale internazionale (CPI). Eppure, in pochi hanno notato un'assenza sorprendente: quella della Guinea. Il quarto, e in realtà il più precoce, tra i recenti regimi militari dell'Africa occidentale non ha aderito a questa iniziativa politica. Questa omissione è particolarmente significativa, poiché la Guinea è l'unico tra questi paesi a essere stato oggetto di un esame preliminare da parte della CPI - un procedimento durato ben tredici anni. Al contrario, l'ex giunta del Mali aveva essa stessa invitato lo scrutinio della Corte nel luglio 2012, principalmente per delegittimare i propri rivali interni agli occhi di una comunità internazionale, altrimenti poco interessata. Il Niger e il Burkina Faso, invece, non hanno mai attirato particolare attenzione da parte della Corte dell'Aia. Perché dunque la Guinea non si è ribellata contro la CPI come i suoi vicini? E in che modo i governi che nel tempo si sono succeduti alla guida del paese sono riusciti a gestire le aspettative di giustizia da parte della popolazione mantenendo al contempo un certo controllo sulla direzione e portata del suddetto esame preliminare?
Il 28 settembre 2009, giorno dell'indipendenza nazionale, la Guinea visse una delle pagine più tragiche della sua storia recente. All'epoca il paese era retto da una giunta militare - diversa da quella oggi al potere - guidata dal capitano Moussa Dadis Camara, salito al comando dopo il colpo di stato del dicembre 2008. In quella data, i principali movimenti d'opposizione organizzarono una manifestazione pacifica presso lo stadio di Dixinn, a Conakry, per protestare contro le ambizioni presidenziali di Camara e chiedere il ritorno al governo civile. Nonostante il divieto ufficiale, oltre 50.000 persone si radunarono nello stadio e nelle strade circostanti. La situazione degenerò quando la Guardia presidenziale, affiancata da miliziani in abiti civili e mercenari liberiani, aprì il fuoco sui manifestanti, provocando un massacro. Secondo fonti internazionali, almeno 157 persone furono uccise e più di 1.200 ferite, mentre numerose donne subirono violenze sessuali. La gravità dei fatti fu tale da destare un'immediata reazione della comunità internazionale, che impose sanzioni e sospese i rapporti diplomatici con la Guinea. Il 14 ottobre 2009, a sole due settimane dal massacro, la Procura della CPI annunciò l'apertura di un esame preliminare sui fatti di Conakry - una decisione insolitamente rapida per i suoi standard.
Le speranze che giustizia venisse finalmente fatta erano altissime nel dicembre 2010, quando Alpha Condé vinse le elezioni presidenziali, diventando il primo leader democraticamente eletto della Guinea sin dalla sua indipendenza nel 1958. Eppure, nonostante l'ottimismo diffuso, una volta al potere Condé mancò ripetutamente l'obiettivo di assicurare alla giustizia i responsabili del massacro dello stadio del 28 settembre 2009. Nei primi anni della sua presidenza, Condé descrisse la Guinea come un Paese disposto ma incapace di fare giustizia, citando a sostegno della sua tesi la generale debolezza delle istituzioni giudiziarie nonché la mancanza di competenze specifiche per condurre indagini penali di una certa complessità. Questa narrazione non solo gli fece guadagnare tempo prezioso, ma convinse anche la CPI a fornire assistenza tecnica e formazione a giudici e procuratori guineani. Ne seguì un decennio di promesse infrante. Condé rinviò sistematicamente l'avvio dei procedimenti penali, nominando nel frattempo ex membri della giunta - alcuni dei quali implicati nel massacro - quali ministri o in altre posizioni apicali all'interno dell'apparato statale. Parallelamente, egli mantenne l'apparenza di avanzare, seppur lentamente, verso l'obiettivo dichiarato, sostenendo che la sua amministrazione stesse effettivamente gettando le basi per celebrare il processo a livello locale, senza che vi fosse quindi bisogno che la CPI avocasse l'indagine e procedesse da L'Aia. Col senno di poi, appare chiaro che la vera priorità di Condé non fosse quella di fare giustizia, bensì consolidare il proprio potere. Egli utilizzò la violenza politica per reprimere il dissenso, manipolò la Costituzione per abolire i limiti di mandato e riuscì infine a ottenere un controverso terzo mandato nel 2020 - tradendo le stesse speranze democratiche che avevano accompagnato la sua elezione dieci anni prima.
Quando la giunta militare guidata dal colonnello Mamady Doumbouya prese il potere nel settembre 2021, l'evento fu accolto con entusiasmo genuino da parte della popolazione. Molti guineani, infatti, consideravano il colpo di Stato un intervento necessario per porre fine alla deriva autoritaria del presidente Condé. La giunta si impegnò a ripristinare il governo civile entro tre anni e, soprattutto, a rendere finalmente giustizia alle vittime del massacro dello stadio del settembre 2009, avvenuto nel distretto di Dixinn della capitale Conakry. Fin dall'inizio, la promessa di giustizia divenne un elemento centrale della legittimazione interna della giunta - una legittimità altrimenti negata sul piano internazionale e regionale. Sia l'Unione Africana (AU) che la Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS) sospesero prontamente la Guinea dalle rispettive organizzazioni in risposta al cambiamento incostituzionale di governo. Benché scettico riguardo alle reali motivazioni della giunta, l'Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale (CPI) decise comunque di collaborare con le autorità guineane per contribuire a superare le carenze istituzionali - poiché, per una volta, la volontà politica non sembrava più rappresentare l'ostacolo principale. Poi, il 28 settembre 2022 - tredicesimo anniversario del massacro - la giustizia si mise finalmente in moto con la celebrazione della prima udienza del tanto atteso processo a Conakry. Il Procuratore della CPI, Karim Khan, partecipò alla cerimonia e, il giorno successivo, annunciò ufficialmente la chiusura dell'esame preliminare della situazione in Guinea. Il rischio che la CPI rivendicasse la propria giurisdizione sul massacro a causa dell'inazione statale - avviando un'indagine da L'Aia - era stato infine scongiurato.
Avendo legato la propria legittimità politica alla promessa di rendere giustizia alle vittime del massacro, i governanti militari della Guinea erano effettivamente determinati a celebrare un processo a livello nazionale e a dimostrare di poter riuscire là dove Condé aveva fallito. Il procedimento giudiziario proseguì nonostante numerosi ostacoli, tra cui una clamorosa evasione dal carcere che portò, seppur brevemente, alla fuga dell'ex presidente Moussa Dadis Camara e di altri imputati di alto profilo. Finalmente, il 31 luglio 2024, il tribunale distrettuale di Dixinn ha emesso una sentenza storica, condannando Camara e sette alti funzionari per crimini contro l'umanità. Il tribunale ha inoltre disposto il pagamento di risarcimenti compresi tra 23.000 e 172.500 dollari statunitensi a favore dei diversi gruppi di vittime, in proporzione ai danni fisici e psicologici subiti. Questo atteso verdetto ha rappresentato una svolta nella storia della Guinea: ha infranto la radicata cultura dell'impunità e segnato la prima volta in cui membri dell'élite politica e militare del Paese sono stati chiamati a rispondere personalmente per aver fatto ricorso alla violenza di massa al fine di mantenere il potere. Colpisce, inoltre, come tale giudizio abbia contrapposto una giunta militare all'altra - con gli attuali governanti impegnati a rendere giustizia contro i leader del precedente regime - quando invece ci si sarebbe potuti aspettare che i membri delle forze armate, pur appartenenti a unità differenti, si coprissero a vicenda.
Fin dalle prime fasi, la strategia politica della giunta militare si è fondata sulla sequenza "prima la giustizia, poi le elezioni". Facendo della celebrazione del processo la propria priorità immediata, i leader militari hanno guadagnato tempo e, così facendo, hanno mantenuto il potere ben oltre le promesse iniziali. Quella che era stata annunciata come una transizione di due anni è stata poi estesa a tre, tra ripetute assicurazioni che il solo compito della giunta fosse quello di garantire un rapido ritorno al governo civile. In realtà, tuttavia, vi sono stati ben pochi segnali di una reale volontà di cedere il potere - un modello, questo, fin troppo familiare nella storia politica della Guinea. Entro l'autunno del 2024, diversi partiti di opposizione erano già stati sciolti, spianando la strada a un nuovo referendum costituzionale. Tenutosi nel tardo settembre 2025, il referendum è stato approvato con oltre l'89% dei voti favorevoli. Le sue principali disposizioni hanno rimosso gli ostacoli legali che impedivano a Doumbouya, nel frattempo promosso al grado di generale, di candidarsi alla presidenza ed esteso la durata del mandato presidenziale da cinque a sette anni, rinnovabile una volta. Di fatto, queste modifiche spianano la strada alla giunta per formalizzare la propria permanenza al governo del paese sotto una facciata civile. Le uniformi militari potranno presto lasciare il posto alla giacca e cravatta - ma il potere, e coloro che lo detengono, rimarranno gli stessi.
Ed è in questo più ampio contesto, prettamente politico, che l'attuale giunta militare ha deciso di fare marcia indietro e smantellare il suo risultato più importante, sacrificando la giustizia in nome del calcolo elettorale e al fine ultimo di consolidare il proprio potere. Dopo aver stabilito le proprie priorità - prima la giustizia, poi le elezioni - il regime ha infatti escogitato una seconda tattica: dividere la giustizia in due. Da un lato, la retribuzione, incarnata nella storica condanna degli ex leader e funzionari della giunta; dall'altro, le riparazioni per le vittime, una misura da tempo attesa e una priorità autentica per molti sopravvissuti in uno dei paesi più poveri e meno sviluppati al mondo. Tuttavia, anche questi gesti sono stati attentamente calibrati in funzione politica, più che per reale convinzione. Non sorprende dunque che, nel giro di pochi giorni, la giunta abbia fatto due annunci apparentemente contraddittori. Il 26 marzo 2025 ha dichiarato che il governo si sarebbe assunto la responsabilità di risarcire le vittime del massacro del 28 settembre 2009 - pagamenti che Camara e gli altri funzionari condannati erano stati obbligati dal tribunale a corrispondere, ma che in pratica non sarebbero mai stati in grado di versare. Soltanto due giorni dopo, il 28 marzo, il leader della giunta Doumbouya ha concesso la grazia presidenziale a Camara, a meno di dodici mesi dall'inizio della sua condanna a vent'anni per crimini contro l'umanità, adducendo motivi di salute. La decisione ha suscitato forti critiche da parte di organizzazioni internazionale e ONG per i diritti umani, che hanno denunciato come tale atto di clemenza minasse il processo di giustizia in corso, vanificando di fatto l'appello in corso, e contraddicesse gli impegni assunti dal governo guineano a livello nazionale, regionale e internazionale.
Ma perché dunque concedere la grazia a Camara, in primo luogo? Secondo molti a Conakry, la risposta risiede nel tentativo di cooptare un attore politico che, nonostante i recenti guai giudiziari, continua a godere di una notevole popolarità nella Guinea forestale, isolata regione nel sudest del paese. Il tacito accordo sarebbe quello che vede la concessione della grazia come moneta di scambio per il sostegno alla candidatura da parte di Camara e la mobilitazione dei suoi sostenitori. Sebbene non ancora ufficialmente annunciato, è sempre più evidente che il generale Mamady Doumbouya intende candidarsi alle elezioni presidenziali promesse per il prossimo 28 dicembre - elezioni il cui esito sembra deciso a orientare a proprio favore ben prima che si arrivi alle urne. Come osservano diversi analisti politici, la Guinea forestale rappresenta un bacino elettorale cruciale - spesso paragonato, nel gergo politico statunitense, a uno swing state - i cui voti possono facilmente determinare l'esito di un'elezione nazionale. Le vere conseguenze politiche della grazia concessa a Camara emergeranno solo una volta scrutinati i voti. Ma un punto è già chiaro: nella Guinea di oggi, la giustizia è purtroppo ridotta a moneta di scambio, facilmente spendibile per fini politici, una volta che abbia cessato di servire gli interessi della giunta.