Fondazione CIMA - Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale

07/15/2025 | News release | Distributed by Public on 07/15/2025 02:44

Neve, intelligenza artificiale e visioni future: il viaggio di una ricercatrice tra le Alpi e Oslo

Lontano dalle sue montagne e dal suo mare, tra le distese ghiacciate della Norvegia e le righe di codice che modellano la neve, Giulia Blandini ha affrontato una sfida personale e scientifica.

Studentessa dell'Università di Genova e dottoranda in idrologia della neve presso Fondazione CIMA, ha impostato la sua ricerca sull'utilizzo dell'intelligenza artificiale per migliorare la comprensione e la modellazione dei processi nivologici e idrologici. Durante un periodo di ricerca presso il Dipartimento di Geoscienze dell'Università di Oslo (UiO), ha portato avanti la sua indagine tra modelli distribuiti, dati satellitari e nuovi algoritmi.

In questa intervista, ci racconta cosa significa lavorare con l'intelligenza artificiale, essere giovani nella scienza e immaginare un nuovo modo di leggere il cambiamento climatico. Una voce che non cerca scorciatoie, ma che attraversa con consapevolezza la complessità del metodo scientifico, condividendo dubbi, scoperte, e la forza di mettersi in gioco davvero.

Giulia, stai per terminare il tuo periodo di ricerca a Oslo. Su cosa ti sei concentrata in questi mesi?

Prima di partire, avevo lavorato su una tecnica di assimilazione per modelli di neve monodimensionali, applicati a stazioni puntuali. In Norvegia ho iniziato a svilupparne una versione bidimensionale, cioè estesa su un intero bacino, ma con un'impostazione operativa, quindi con meno costi computazionali. L'obiettivo è costruire un framework distribuito per stimare la neve in modo realistico, unendo dati da stazione e da satellite.

Anche durante il mio periodo a Oslo ho continuato a lavorare sui dati delle Alpi italiane, con l'idea di sviluppare una modellistica che sia valida a livello teorico ma applicabile in contesti concreti e complessi come quelli mediterranei. Questo mi ha permesso di mantenere uno sguardo scientificamente coerente, ma al tempo stesso arricchito dall'esperienza internazionale.

Ho approfondito approcci statistici e di machine learning, lavorando con modelli come i Gaussian Processes, che sono una via di mezzo tra statistica e IA, e possono essere pensati come reti neurali infinite. Questi modelli mi permettono di interpolare in modo spaziale ciò che prima modellavo solo in punti isolati. È un modo per costruire qualcosa di più scalabile, che mantenga rigore e coerenza scientifica ma sia anche applicabile.

Quindi, non solo reti neurali?

No. Il mio obiettivo non è sostituire i modelli fisici, ma affiancarli. I modelli tradizionali si basano su equazioni fisiche: assumono delle relazioni note tra i dati. Ma quando quelle relazioni non sono note, o sono troppo complesse da esplicitare, entra in gioco l'intelligenza artificiale. In particolare, io uso l'IA per emulare la parte statistica della data assimilation: creo un emulatore che riesce a replicare le correzioni del modello fisico, ma con meno tempo e meno risorse.

In questo senso, non è solo un discorso di performance. È un approccio che unisce la fisica e la statistica, mantenendo il controllo teorico, ma permettendo di lavorare in contesti operativi dove le risorse computazionali sono limitate.

Hai lavorato anche con dati satellitari?

Sì, ho imparato moltissimo proprio su questo. A Oslo ho approfondito l'uso dei dati satellitari sia nella data assimilation sia nel machine learning. L'idea è passare dai dati puntuali delle stazioni a un'osservazione distribuita e continua nel tempo. Questo mi ha permesso di vedere anche meglio il legame tra modellistica, osservazione e previsione.

Il mio obiettivo è creare un framework che possa essere applicato a tutto l'arco delle catene montuose italiane e mediterranee. Ma per farlo serve una base solida, e una visione che metta insieme teoria, dati e applicazione. In questi sei mesi ho cercato proprio questo equilibrio.

Dal punto di vista umano, cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Molto più di quanto mi aspettassi. Ho scelto Oslo anche come sfida personale, una sfida che andava ben oltre la dimensione scientifica. Significava immergermi in un contesto lontano da quello in cui sono cresciuta, abituata alla luce intensa e all'apertura del Mediterraneo tra Liguria e Sicilia, per confrontarmi con un paesaggio più raccolto, silenzioso, spesso coperto di neve e ghiaccio. Volevo vedere come sarei riuscita a muovermi in un ambiente che, almeno in apparenza, non mi apparteneva. È stata una scelta consapevole, quasi simbolica: mettermi alla prova fuori dalla mia zona di comfort, in un luogo dove anche il mio modo di vivere la ricerca sarebbe cambiato. E così è stato.

Un esempio personale concreto? Non praticavo sport invernali e qui mi sono ritrovata a sciare e pattinare su un lago ghiacciato. Per me è stato un gesto simbolico. Ho pensato: se riesco a stare in piedi sul ghiaccio di un lago, forse riesco anche a costruire un modello. Ho imparato a lanciarmi, a fidarmi delle mie capacità. A muovere i primi passi da sola, anche nella ricerca.

Cosa ti ha colpito del modo di fare scienza in Norvegia?

Due cose. La prima: il rapporto con la neve è diverso. In Italia la neve è una risorsa sempre più scarsa, la studiamo per la gestione idrica, per il rischio, diciamo già in fase di emergenza. In Norvegia la neve si studia anche per fini ricreativi, legati al turismo e allo sport. Questo cambia l'approccio, e mi ha aiutato a vedere quanto il contesto plasmi il senso della ricerca.

La seconda: l'equilibrio tra lavoro e tempo libero. In Italia tendiamo a restare davanti allo schermo fino a sera. Lì è normale uscire, prendersi una pausa, anche per assecondare le ore di sole. Non significa lavorare meno: significa rallentare per pensare meglio. Ho imparato che anche il tempo vuoto può essere parte del processo "creativo".

E ora che il ritorno si avvicina?

Sono molto soddisfatta di questi sei mesi. Ho sempre pensato che "fuori dall'Italia si viva meglio", ma adesso so che voglio tornare. Voglio vivere in un posto che mi rappresenti anche nel carattere, nel ritmo, nel modo di stare con gli altri. Mi dispiace lasciare le amicizie e la routine accademica norvegese, ma sento che è il momento giusto per tornare e portare in Italia tutto quello che ho imparato e la persona che sono diventata.

Che cosa diresti a chi sta pensando di iniziare un dottorato?

Se c'è un campo su cui è urgente investire è quello della scienza ambientale applicata ai rischi naturali. Perché i cambiamenti sono già visibili, li viviamo ogni giorno. Non sono più scenari futuri, sono il nostro presente.

E poi, direi che i giovani hanno una voce. La mia esperienza all'estero mi ha insegnato che pochi anni di carriera non significano inesperienza. Significano una prospettiva diversa. Più vai avanti, più la tua visione si allarga. Ma anche una prospettiva più piccola può essere valida, precisa, utile.

In conclusione, che ruolo vedi per i giovani nella scienza di oggi?

Siamo una generazione di transizione. Abbiamo la memoria di com'era prima e la consapevolezza di ciò che sta cambiando. Io, ad esempio, ho avuto la fortuna di guardare una montagna innevata e riconoscere in quella vista qualcosa che conosco da sempre. Ma so anche che quella visione potrebbe non esserci per sempre, almeno non così. Noi giovani abbiamo meno risorse forse, ma più energia, più coraggio, più voglia di trovare soluzioni. Ecco perché la scienza, per come la vivo io, dovrebbe fondarsi proprio su questo sentimento di possibilità.

Fondazione CIMA - Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale published this content on July 15, 2025, and is solely responsible for the information contained herein. Distributed via Public Technologies (PUBT), unedited and unaltered, on July 15, 2025 at 08:44 UTC. If you believe the information included in the content is inaccurate or outdated and requires editing or removal, please contact us at [email protected]