11/10/2025 | Press release | Distributed by Public on 11/11/2025 03:04
A quattro anni dalle ultime elezioni, i cittadini iracheni sono chiamati al voto sullo sfondo di un contesto regionale più instabile. Sul piano interno, si registra invece un clima di relativa stabilità e ripresa economica. Restano tuttavia diverse criticità che, stando alle previsioni, gettano un'ombra sulla buona riuscita delle elezioni: in particolare, un'ampia disaffezione che si traduce in scarsa partecipazione politica e una diffusa corruzione. Al contempo, la campagna elettorale è stata accompagnata da crescenti pressioni statunitensi per limitare l'influenza iraniana nel paese. Ma come si terranno le elezioni dell'11 novembre, e cosa significheranno per l'Iraq?
Le elezioni porteranno alla nomina di 329 deputati del Consiglio dei rappresentanti in diciotto circoscrizioni, coincidenti con le province. Tra i seggi disponibili il 25% è riservato alle donne, mentre nove sono destinati ai rappresentanti delle minoranze nazionali: cristiani (cinque), turcomanni (uno), shabak (uno), curdi fayili (uno) e yezidi (uno). La ripartizione dei seggi sarà basata sul metodo Saint-Laguë, già in utilizzo fino al 2020 e ripristinato nel 2023 con modifiche che favoriranno i partiti maggiori - quelli settari - ancor più che in precedenza.
Una volta ultimata la votazione e individuati i vincitori, il Consiglio eleggerà innanzitutto il proprio speakeralla prima seduta. Successivamente, entro trenta giorni si procederà con la nomina del presidente e, entro quindici giorni, con l'elezione del primo ministro, scegliendo dalla coalizione parlamentare maggioritaria. Con una precisazione: stando ad una sentenza della Corte suprema del 2010, tale formazione non coinciderebbe con i vincitori delle elezioni, ma con quella che si formerà successivamente tramite accordi raggiunti tra i banchi del parlamento, rendendo ancora più complesso prevedere il profilo del prossimo esecutivo. Nel caso del primo ministro Mohammed Shia' al-Sudani, la nomina scaturì infatti dalla formazione del Quadro di coordinamento sciita (SCF), nato dall'intesa tra i partiti sciiti "tradizionali" e le formazioni legate alle Forze di mobilitazione popolare (PMF).
A rendere peculiare il quadro è, infine, la prassi consociativa (muhasasa ta'ifiyya, ossia "spartizione confessionale") che, informalmente, prevede sin dal 2005 che lo speaker del parlamento sia sunnita, il presidente curdo e il primo ministro sciita. Lo scopo sarebbe garantire l'equa rappresentanza delle comunità più importanti del paese, in maniera analoga al sistema politico libanese.
All'alba delle elezioni, lo scenario delle liste si presenta ampiamente frammentato, con ciascun campo "settario" che si presenterà alle votazioni diviso in diverse componenti. Nel caso del SCF, ossia la coalizione più importante del parlamento uscente, le principali forze ora in competizione saranno l'Alleanza "Ricostruzione e sviluppo", guidata dall'attuale primo ministro al-Sudani e focalizzata su sviluppo economico e ricostruzione - in continuità con l'attuale amministrazione -, con la Coalizione "Stato di diritto" trainata dalla figura inossidabile di Nouri al-Maliki, ex-primo ministro per le prime due legislature del paese dal 2003, e particolarmente popolare nel centro e sud del paese. Seguono l'Alleanza delle Forze dello Stato Nazionale guidata da Ammar al-Hakim, ex-leader del Consiglio supremo islamico dell'Iraq (ISCI) ora posizionatosi in campo moderato e a capo del Movimento nazionale della saggezza, e l'Alleanza Fatah, ossia l'emanazione politica di diverse milizie sciite guidata dal leader del movimento Badr, Hadi al-Amiri.
Nel campo sunnita, invece, le maggiori liste in competizione saranno il partito Taqaddum ("Progresso"), guidato dall'ex presidente del parlamento Mohammed al-Halbousi e forte soprattutto nell'ovest del paese, e il partito al-Azm ("Determinazione"), che punta invece alle province del centro e del nord.
Menzione a parte meritano le forze politiche curde, tra cui il Partito democratico curdo (KDP), guidato da Masoud Barzani, e l'Unione patriottica del Kurdistan (PUK) manterranno con ogni probabilità la preminenza sui partiti emergenti.
Resta tuttora escluso il movimento del leader sciita Moqtada al-Sadr che, nonostante il successo del 2021, ha optato per rimanere fuori dalla competizione e sostenere il boicottaggio delle elezioni, in segno di dissenso verso i suoi rivali politici, definiti "criminali". Una decisione in linea con il ritiro avvenuto nel 2022, che ha permesso al Movimento sadrista di consolidare, nel frattempo, la propria popolarità come forza "antisistema".
Se da un lato le forze in campo si presentano divise - per massimizzare i voti e poi capitalizzarli durante le contrattazioni post-elettorali, oltre che per rivalità politica -, dall'altro si servono tutte del clientelismo come base per la propria influenza. L'affidamento alle reti tribali e confessionali, alimentate da ingenti capitali talvolta ottenuti tramite malversazione, è infatti una pratica consolidata che si articola nella distribuzione di incarichi pubblici, affidamento di appalti e, nel caso delle elezioni, tramite la compravendita di voti. Come rimarcato da Zuhair al-Jalabi, membro della Coalizione "Stato di diritto", la mole di fondi pubblici sottratti illecitamente e in mano a queste "non ha eguali". Nonostante si tratti di un fenomeno trasversale, la corruzione nel settore pubblico (che assorbe ben il 42% degli occupati del paese) diventa anche il principale strumento di conservazione del potere da parte delle maggiori forze politiche anche e soprattutto in occasione delle elezioni. Queste, sempre secondo al-Jalabi, "sfruttano i dipendenti statali e coloro che hanno diritto al voto speciale[1] attraverso intimidazioni e incentivi, assicurandosi la loro lealtà". Nel caso dei candidati aventi cariche istituzionali o connessi ai maggiori partiti, le ingenti spese sostenute - violando, secondo i candidati emergenti, le regole imposte dall'Alta commissione indipendente elettorale (IHEC) - sottolineano il loro notevole vantaggio sui concorrenti non-settari, soprattutto se emergenti.
Il livello di competizione elettorale senza precedenti - circa 7.000 candidati contro i 3.249 del 2021 - contribuisce ad acuire le tensioni tra le formazioni in campo, sfociate anche in episodi di violenza. Il 16 ottobre, ad esempio, il candidato dell'Alleanza Siyada Safa al-Mashhadani, afferente al blocco sunnita, è stato assassinato nel distretto di Tarmiyah a Baghdad con un ordigno piazzato nella sua auto. Due giorni dopo, sempre nella capitale, un commando ha aperto il fuoco contro l'ufficio di Muthanna al-Azzawi, del partito al-Azm, ferendo due guardie del corpo. Nonostante né il movente né gli autori siano ancora chiari, i sospetti sembrano ricadere sulle PMF, che da anni controllano quelle zone. Il numero crescente di episodi simili sottolinea che, nonostante la relativa stabilità del paese, la violenza politica rimane presente.
[1] Per voto speciale s'intende anticipato al 9 novembre, riservato ai membri delle forze di sicurezza: ben 1.313.859.
Lo strapotere delle PMF, foraggiate tramite sostanziosi finanziamenti statali (ben 3,6 miliardi di dollari per 238.000 membri), rappresentano, assieme alla diffusa corruzione e alla resilienza dell'élite "settaria", gli indizi più evidenti dell'incapacità del sistema democratico iracheno di poter essere riformato tramite la partecipazione popolare. Ciò è reso ancora più drammatico dalla mancata capitalizzazione della rivoluzione di ottobre (Tishreen) del 2019, che ha intaccato fortemente non solo la fiducia nell'esercizio del voto come strumento di cambiamento, ma anche la considerazione per l'ideale democratico in sé: nell'arco di quattordici anni dal 2010, il consenso verso un sistema multipartitico è infatti crollato dall'85% al 39%. Come conseguenza, l'affluenza prevista, secondo alcuni esperti, potrebbe sprofondare al di sotto del 41%, record negativo delle scorse elezioni.
Oltre alla disaffezione, l'astensionismo è inoltre alimentato da appelli al boicottaggio. In primis, Moqtada al-Sadr ha fatto appello gli iracheni a non partecipare al voto in segno di protesta verso la corruzione e l'influenza iraniana sul sistema politico, ma non è il solo: anche diversi esponenti politici della comunità cristiana hanno chiamato i propri correligionari a boicottare il voto per protestare contro il vuoto normativo che permette al movimento Babilonia, affiliato alle PMF, di concorrere da favorito per i seggi riservati ai cristiani grazie al voto di elettori sciiti.
Al di là dell'incertezza sulle dinamiche politiche che seguiranno le elezioni, lo scenario regionale e le complesse relazioni con gli attori esterni - in particolare Stati Uniti e Iran - aggiungono un ulteriore spessore all'appuntamento elettorale. Nel corso del suo mandato, al-Sudani è riuscito ad emanciparsi dallo SCF, gestendo efficacemente i rapporti con Washington e Teheran e favorendo una certa ripresa economica nel paese. Un equilibrio che potrebbe essere reso ancora più complesso dall'esito delle elezioni parlamentari, soprattutto alla luce del crescente attrito tra l'alleanza israelo-statunitense e l'Iran dopo la "guerra dei dodici giorni" di giugno e la cessazione del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA).
In questo contesto, Washington ha aumentato, negli ultimi mesi, la pressione sul governo iracheno, con l'obiettivo di arginare l'influenza delle PMF nel paese e, soprattutto, eventuali azioni ostili nei confronti degli Stati Uniti da parte delle milizie ad esse collegate. Con il profilarsi delle elezioni, infatti, il governo statunitense ha prima sanzionato il principale braccio economico delle PMF e portato a sei il numero delle milizie riconosciute come Organizzazioni terroristiche straniere (FTO) (Kata'ib Hezbollah, Harakat Hezbollah al-Nujaba, Kataib Sayyid al-Shuhada, Asa'ib Ahl al-Haq, Harakat Ansar Allah al-Awfiya e Kata'ib al-Imam 'Ali), e infine richiesto all'esecutivo al-Sudani di disarmarle in toto. A rendere prioritario il contenimento delle milizie hanno concorso diversi fattori: la tentata integrazione delle PMF all'interno dell'esercito iracheno da parte del governo al-Sudani - poi rinviata a dopo le elezioni -, i ripetuti attacchi alle basi statunitensi nel paese durante la "guerra dei dodici giorni" e la più generale strategia di "massima pressione" della presidenza Trump su Teheran. Per di più, gli Stati Uniti e Israele continuano a considerare probabile un prossimo scontro con le milizie sciite, stavolta nel contesto dell'attesa re-escalation nello scontro armato con l'Iran: una circostanza che per il primo ministro israeliano Netanyahu non escluderebbe un'azione militare in territorio iracheno.
I concorrenti in campo hanno già reagito alla crescente assertività degli Stati Uniti. Dal canto suo, il premier uscente ha già messo in chiaro che il disarmo delle milizie non ancora sotto il completo controllo dello stato è subordinato alla smobilitazione della coalizione anti-ISIS Multi-National Force - Iraq (MNF-I). Sorprendentemente, però, anche il SCF starebbe vagliando l'opzione di disarmare pubblicamente tali formazioni e integrarle pienamente all'interno delle PMF. Anche se questo suggerisce che un'eventuale vittoria delle forze filoiraniane non entrerebbe necessariamente in conflitto con gli interessi di Washington da questo punto di vista, rimane il nodo della "massima pressione" anche sui rapporti economici tra Baghdad e Teheran. La reintroduzione delle sanzioni verso l'acquisto di energia elettrica dall'Iran da marzo ha, in questo senso, lanciato un messaggio chiaro: l'Iraq si deve sganciare economicamente dal vicino persiano. Del resto, lo snapback nei confronti dell'Iran costituisce già una sfida per gli scambi tra i due paesi. Sarà forse questa, quindi, e non il contenimento delle milizie, la vera incognita per il futuro esecutivo, sia esso guidato dal premier uscente o da uno dei suoi avversari.