ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

11/08/2024 | Press release | Distributed by Public on 11/08/2024 04:49

Islam politico e democrazia in crisi: il Maghreb volta pagina

Fra l'orrore delle notizie da Gaza e le sospensioni della democrazia, nel Maghreb e in genere nei Paesi arabi lo spazio per l'Islam politico sembra ridursi ancora. Le elezioni presidenziali in Tunisia, con la stretta sulle candidature che nei fatti ha spazzato via ogni opposizione a Kaïs Saïed, suggeriscono uno sguardo sulla profonda crisi che ha colpito le ali moderate dell'universo islamico, quelle che almeno formalmente accettano e riconoscono i meccanismi democratici. Dopo l'arresto nell'aprile 2023 di Rachid Ghannouchi, leader indiscusso di Ennahda, il partito che fa riferimento ai Fratelli musulmani si è limitato a dare tiepide indicazioni di voto per Ayachi Zammel, l'imprenditore incarcerato poche settimane prima delle elezioni. Una scelta inutile, a guardare i risultati: il presidente Kaïs Saïed ha avuto una forte riconferma del suo mandato, solo in parte ridimensionata dalla modestissima affluenza alle urne, mentre Zammel ha preso meno di duecentomila voti.

Sembrano lontani i tempi in cui il partito islamico metteva il suo cappello sui moti spontanei della rivoluzione, grazie alla presenza già ben strutturata e al ruolo della preghiera nelle moschee, mezzo di comunicazione che allora era ancora prevalente sugli emergenti social network. "Quel tempo è finito", spiega Soufiane Ben Farhat, giornalista, anchorman tv e scrittore: "In Tunisia l'Islam politico ha risentito della stanchezza e della delusione che gran parte della popolazione nutre verso i partiti". In particolare, ad annacquare gli entusiasmi politici dei fedeli è la visione più disincantata dell'Islam che caratterizza la Tunisia: "La nostra è una società mediterranea, chi ha tentato di applicarvi una lettura troppo rigorista della religione era un illuso. Per noi è più una tradizione che una fede forte". A imporre costumi più vicini a quelli dell'Europa aveva cominciato Habib Bourguiba nel 1956, abolendo la poligamia, "ma non ce n'era bisogno", ricorda Ben Farhat: "Già allora meno di un tunisino su cento era poligamo". Secondo qualche analista, fu un altro gesto esemplare del presidente - l'invito a interrompere il digiuno del Ramadan per impegnarsi nel lavoro - a sancire la lontananza fra laici e credenti e dunque a creare lo spazio per l'Islam politico.

A condannare l'esperimento politico di Ennahda non è stata solo l'incomprensione della cultura tunisina, ma anche il fatto che la popolazione ha potuto vedere alla prova gli esponenti islamisti dopo la vittoria alle elezioni post-rivoluzionarie. Il giudizio, sottolinea Ben Farhat, non poté essere lusinghiero, per il via libera alle frange islamiche estremiste, fra omicidi politici e attacchi dei salafiti alle tv, ma anche per la corruzione diffusa. "Nel Paese c'è una forte influenza del sufismo, che si è sempre schierato contro l'Islam politico", dice l'intellettuale: "I tunisini odiano gli integralisti e i fanatici. Hanno dato a Ennahda un'occasione, ma il partito ha pensato a coltivare i rapporti con la Turchia e il Qatar, invece di curarsi dei bisogni della popolazione. E questa non lo dimentica".

La situazione politica di Tunisi permette qualche parallelo con il Cairo: in entrambi i Paesi le formazioni che fanno riferimento alla Fratellanza sono di fatto fuori legge. Ma la somiglianza finisce qui: in termini culturali la distanza è enorme, per l'identità mediterranea dei tunisini ma anche grazie al ruolo delle Forze Armate che in Egitto hanno sempre avuto un ruolo preminente, mentre in Tunisia hanno coltivato un profilo più basso. In Libia la Fratellanza, che Gheddafi aveva osteggiato quasi fino alla fine, deve fare riferimento a Tripoli e alla protezione turca, ma nella guerra civile strisciante non sembra poter avere un ruolo distinto dalle milizie integraliste armate. Ma la Turchia è un alleato, non un esempio contagioso: per il momento nel Maghreb non sembra apparire una figura come quella di Recep Tayyip Erdogan, capace di portare sotto la bandiera dell'Islam politico anche il nazionalismo dei militari.

Secondo il politologo Alaya Allani, massimo studioso dell'argomento, l'esperimento tunisino è finito con il movimento 25 luglio, che ha sostenuto e difeso il consolidamento del potere da parte di Kaïs Saïed e di fatto ha messo in difficoltà Ennahda, riducendo in modo significativo l'inflazione. "Ci sono due elementi da sottolineare sull'Islam politico. Il primo: si nutre della povertà , e cresce su di essa. Il secondo: prolifera dove lo Stato è debole. Non è un caso che Ghannouchi, rientrato in Tunisia dall'esilio, abbia lavorato per dividere i poteri. Il centro delle decisioni è distribuito fra tre diversi ruoli: il Parlamento, il presidente della Repubblica, il primo ministro. Quest'ultimo ha le prerogative più importanti, ma non è eletto, è designato dal presidente". Secondo lo studioso, per i partiti islamici il primo obiettivo è quello di evitare che si stabilisca un forte potere centrale. Poi le competenze si confondono: Ghannouchi, per esempio, da presidente del Parlamento non avrebbe dovuto occuparsi della politica estera, e invece voleva decidere anche sulla Libia. La linea ufficiale tunisina è di neutralità, "Ennahda invece voleva schierarsi accanto ad Alba libica, la coalizione di milizie islamiste, che in realtà segue gli ordini della Turchia".

Quando il partito islamico era al potere, i legami con Ankara sono diventati più stretti, ma la collaborazione economica di fatto ha danneggiato alcuni settori tunisini, per esempio le produzioni tessili. Allani ritiene che il presidente Kaïs Saïed si sia trovato la strada aperta: "Ennahda non ha mai proposto un programma politico ed economico che non fosse la tolleranza per il contrabbando nel sud della Tunisia, non è nemmeno riuscita a comunicare con le élites culturali e politiche".

"L'Islam politico è in caduta libera ovunque nel Maghreb. In Marocco ha conquistato 165 seggi nel 2011. Alle ultime elezioni, l'anno scorso, ne ha ottenuto 13. In Libia gli islamisti hanno ottenuto un buon risultato nel 2012, ma sono stati sconfitti nel 2014. Qui in Tunisia avevano preso un milione e mezzo di voti nel 2011, ne hanno perduto oltre 500 mila alla fine del 2014, dopo gli omicidi politici come quello di Choukri Belaïd, e nel 2019 hanno ottenuto meno di mezzo milione di voti. Insomma, dai tempi della rivoluzione hanno perso due terzi dei consensi". Al momento i partiti di ispirazione religiosa sono all'opposizione in tutto il Maghreb, e solo in Giordania è in atto un consolidamento delle formazioni islamiche.

Ora anche lo scontro fra Hamas e Israele, con l'offensiva del 7 ottobre e l'invasione di Gaza e del Libano, costituisce un punto di svolta. "Dopo la guerra", sostiene l'analista, "le prospettive dell'Islam politico dipendono da tre fattori diversi: il primo è la politica che il nuovo Presidente americano deciderà . Il secondo: la sorte di Netanyahu e la sua possibile successione. Il terzo: il comportamento dell'Iran dopo l'attacco israeliano". In altre parole, a tredici anni dalla cosiddetta Primavera araba la spinta propulsiva dei partiti di ispirazione religiosa è finita, le uniche prospettive sono di reazione agli eventi.